Pandemia da coronavirus e sistema funerario: le trasformazioni ed il futuro del comparto
La pandemia che interessa l’intero mondo ha messo a dura prova il sistema funerario dei vari paesi con punte di assoluta drammaticità. Se riandiamo con la memoria alle immagini delle fosse comuni approntate, all’uopo, nello stato di New York o se riandiamo alle immagini casalinghe dei camion militari che trasferivano i feretri da Bergamo abbiamo il segno della crisi del sistema funerario e della sua impreparazione ad affrontare una emergenza planetaria.
La riflessione, quindi, sulla fenomenologia di questa emergenza e sulla necessità di curare, con la dovuta attenzione ed impegno, l’adozione di procedure e soluzioni di emergenza, acquista pregnanza ed attualità.
Il sistema nel suo complesso è stato sottoposto ad uno stress molto forte; certo i richiami diffusi alla imprevidenza dei pubblici poteri nel passaggio tra la prima ondata, i primi mesi del 2020, e la seconda, a partire dall’agosto fino ai giorni nostri ed ai prossimi mesi, in attesa della diffusione del o dei vaccini e fidando nella loro efficacia, sono non solo legittimi, ma doverosi.
Non ci soffermeremo su questi aspetti, a noi compete, piuttosto, riflettere sul sistema e sulla opportunità/necessità di adottare appropriati interventi.
In primis, si è vissuta una totale discrasia tra funeraria e governo della pandemia, come dimostra, lo abbiamo sottolineato più volte e registriamo, finalmente, una condivisione anche di altre componenti, l’impiego dei camion militari a Bergamo.
È necessario che il sistema funerario nazionale sia rappresentato nei centri decisionali della Protezione Civile. Da alcune note registreremmo che alcune rappresentanze di questo mondo hanno partecipato alle decisioni assunte; se così fosse, se cioè Feniof e Sefit avessero partecipato alle decisioni della Protezione Civile, saremmo di fronte alla assoluta inadeguatezza della loro presenza.
In secondo luogo, il sistema funebre: lo stress vissuto da questo settore, soprattutto nella prima fase della pandemia e nelle zone a più alta concentrazione del virus, la Lombardia per prima, è stato acutissimo ed ha fatto maturare processi collaborativi tra le attività funebri in varie realtà. È significativo che tale stress è stato sostenuto meglio dove si è registrata una significativa presenza dei centri servizi: un responsabile di queste strutture ci ha confermato che nel mese di aprile con il passaggio da 30/35 servizi giornalieri a bel 120 servizi funebri al giorno si sia registrato un ritardo di 15 minuti nell’esecuzione di due soli servizi.
Tutto questo ci riconferma la progressiva integrazione di un sistema articolato, con la presenza di complesse aziende, di centri servizio e aziende di dimensione più modeste, capace di instaurare e far progredire relazioni di “rete”.
In terzo luogo, si deve rilevare che la componente del sistema che ha subito, più degli altri, lo stress è quella cimiteriale e crematoria.
Non solo nella prima fase (nei territori del nord) ma anche nella seconda fase si sono manifestate le acute difficoltà del sistema cimiteriale nel suo complesso.
Le cronache di queste settimane lo evidenziano: Ragusa, Alessandria, Barletta, Somma vesuviana, Palermo, per non parlare della sempre citata Roma, ci richiamano le difficoltà vissute da queste strutture arrivando a provvedimenti di limitazione dei servizi per reggere allo stress pandemico.
Certo non si deve trascurare la progressiva riduzione delle risorse destinate a questi servizi: riduzione del personale, rinvio degli investimenti (il caso di Roma è eclatante), assenza di processi formativi e di aggiornamento con la conseguente resistenza, mi si permetta, dell’apparato pubblico ad ogni innovazione possibile, o la pigrizia mentale (esempio significativo la resistenza all’introduzione nel sistema cimiteriale dei nuovi loculi areati)…
È vero, però, che il sistema cimiteriale nel suo complesso, ha manifestato una rigidità significativa che può dipendere dalla ovvia rigidità della potenzialità degli impianti di cremazione, ma che, soprattutto per i cimiteri, è frutto anche di visioni superate.
Il contesto in cui ci muoviamo per una prospettiva non è sicuramente dei più favorevoli.
Il trend delle risorse finanziarie pubbliche dedicate a questi servizi non accenna a modifiche di sorta con il diffondersi sempre maggiore del ricorso ai project financing che progressivamente sposteranno la regia e la centralità complessiva dal “pubblico” al “privato” senza, quindi, una presenza pubblica forte, alla francese per intendersi, che sia capace di funzioni egemoniche indipendentemente dall’intervento gestionale diretto.
Si sta diffondendo, inoltre, una pericolosa e nefanda liaison tra movimento no-crem e populismo che favorisce il diffondersi di ostilità generalizzate alla diffusione di impianti di cremazione anche di fronte ad una crescente domanda: oggi non si può ipotizzare alcun impianto di cremazione senza che si manifesti un movimento di contrasto per invocati interessi immobiliari od altro.
Senza pensare, infine, alla vetustà delle normative come abbiamo registrato anche nel corso dell’aggravarsi della pandemia nella passata primavera quando le disposizioni ministeriali, a fronte di ben orientate interrogazioni, confermarono l’obbligo, per i defunti per coronavirus, di doppio cofano (legno e zinco) per l’inumazione senza considerare minimamente l’impiego di materiali diversi dal metallo semplicemente perché così recitava il DPR 285/90 (Vecchio Regolamento) vecchio di oltre 30 anni. Anche questa grande occasione persa dall’intero comparto per la totale assenza di comunicazione interna tra le varie componenti e per qualche malinteso revanchismo.
I cimiteri italiani vivono, ormai da un decennio abbondante, una profonda trasformazione ed una crisi altrettanto grave: le pratiche funerarie non sono più quelle tradizionali, il culto dei morti si svolge con modalità diverse; la laicizzazione della società italiana e le modificazioni all’interno della famiglia e della società non sono ininfluenti sulla tradizione cimiteriale tanto che non pochi preconizzano una sorte di fine dei cimiteri.
Non ci sarà questa fine ma sicuramente siamo di fronte ad una sorte di necessaria rivoluzione copernicana che deve essere affrontata non con semplici adattamenti ma con grande apertura culturale capace di collegare le tradizioni storiche ad una concezione moderna e funzionale dei cimiteri del terzo millennio.
Si dovranno trovare soluzioni alle necessità emergenziali quali impianti di cremazione mobili funzionali a molteplici necessità: la crescita contingente della domanda in specifici territori o il ricorso sempre più frequente alla cremazione dei resti mortali derivanti da esumazioni ed estumulazioni massive; sicuramente si dovrà curare l’introduzione di criteri “industriali” nella gestione dei servizi cimiteriali, ma il cimitero non deve perdere la sua funzione di concentrato di servizi al trattamento ed alla cura dei morti, cioè non deve perdere o snaturare la sua natura, la sua essenza.
Compito arduo, compito che fa tremare i polsi e sicuramente non invidiabile.
Ci sono, oggi, menti forti ed illuminate per affrontare questi impegni? Non lo so e non mi azzardo a formulare ipotesi; nel mio piccolo sollecito la ripresa di attenzioni nuove all’uso delle strutture obbligatorie nei cimiteri, a partire dalle spesso vituperate Camere Mortuarie, delegandole ad adempiere a nuove funzioni in un quadro generale che veda, da un verso lo sviluppo, nel mondo funebre, delle nuove strutture di servizio, quali le “case funebri”, come aggregazione di un nuovo modo di svolgere l’attività funebre e con lo sviluppo dei nuovi servizi che sono richiesti dalle famiglie, dall’altro lo sviluppo dell’accoglienza finale dei defunti, all’interno dei cimiteri, luoghi di servizio e di collegamento tra vivi e defunti capaci di sviluppare servizi adeguati alle nuove domande, senza che questi due mondi snaturino la loro natura e la loro funzione occupando spazi non propri.
Giovanni Caciolli
Vicepresidente nazionale Federcofit