Cassazione sulla divisa aziendale: se dev’essere indossata per ragioni estetiche, i lavoratori non hanno diritto allo spogliatoio per cambiarsi.
Alcuni dipendenti dell’azienda napoletana mobilità, tenuti, per contratto collettivo, ad indossare una divisa aziendale, si sono rivolti al tribunale di Napoli sostenendo che l’A.N.M. era inadempiente all’obbligo, previsto dall’art. 40 del D.P.R. n. 303/56 e della legge n. 626/94, di mettere a disposizione un numero adeguato di spogliatoi per dar loro la possibilità di arrivare in abiti civili e di indossare la divisa prima di iniziare il lavoro, hanno chiesto l’apprestamento degli spogliatoi e il risarcimento del danno. Sia il tribunale, in grado di appello, sia la corte di Napoli, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento.
I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione dalla corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge. la suprema corte (sezione lavoro n. 11071 del 6 maggio 2008, pres. Miani Canevari, rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. il D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 (“norme generali per l’igiene del lavoro”), modificato dal decreto legislativo n. 626 del 19 settembre 1994 – ha ricordato la corte – prescrive all’art. 40 che “locali appositamente destinati a spogliatoi devono essere messi a disposizione dei lavoratori quando questi devono indossare indumenti di lavoro specifici e quando per ragioni di salute o di decenza non si può loro chiedere di cambiarsi in altri locali.” tale norma – ha affermato la Corte – come si desume anche dalla sua collocazione, ha la finalità di garantire, attraverso la necessaria struttura, l’igiene e la sicurezza nei posti di lavoro.
L’espressione “indumenti di lavoro specifici“, contenuta nel citato art. 40, nell’accezione voluta dal legislatore non può, pertanto, che fare riferimento a divise (o abiti) aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore, nonché ad altri indumenti – da indossare quale componente essenziale dell’attività lavorativa in considerazione della specificità o peculiarità della sua natura – volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad essa connessi (ad esempio: tuta di lavoro dell’elettricista; tuta ignifuga del vigile del fuoco) o a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento del suo lavoro (ad esempio, divisa dell’operatore ecologico). Deve pertanto escludersi – ha osservato la Corte – nella determinazione dall’ambito di operatività della suddetta norma, qualsiasi riferimento a divise od a forme di abbigliamento, funzionalizzate ad altre e diverse esigenze (ad esempio: divisa da indossare ai fini della sola identificazione del soggetto datoriale). Nella fattispecie in esame – ha rilevato la Cassazione – la prescrizione per il personale viaggiante dell’A.N.M. di indossare un vestiario uniforme – consistente in capi confezionati su misura per ogni singolo lavoratore, composti da una camicia, una cravatta o foulard, una giacca, un paio di pantaloni, un berretto ed un giaccone – era stata convenuta tra le parti sociali in un’ottica di recupero della qualità del servizio e dell’immagine aziendale; circostanze che fanno emergere con chiarezza l’infondatezza della domanda dei lavoratori, per avere costoro evocato a sostegno delle loro richieste una disposizione – quella appunto dell’art. 40 del D.P.R. n. 303 del 1956 – che non può, in ragione delle specifiche finalità perseguite, fungere da criterio valutativo della condotta dell’azienda.