Riti funebri e commiato: ancora una riflessione su pandemia COVID-19 ed operatori funebri
La ripresa di un trend particolarmente preoccupante della diffusione del Covid-19 in tutto il paese sollecita il richiamo ad una serie di considerazioni sulle conseguenze della pandemia sul settore funebre ripensando alle vicende vissute dal nostro paese nei mesi di fuoco, gli scorsi marzo, aprile e maggio.
In un recente intervento su “Si può dire morte: uno spazio di riflessione per condividere il dolore, il morire e il lutto”, la dott.ssa Marina Sozzi, nota ricercatrice ed esperta sui temi della morte e del lutto, avanzava alcune considerazioni, con parole molto calzanti, in merito alle trasformazioni causate dall’epidemia Covid-19 sul lutto e sul distacco dai propri cari.
Ci permettiamo di citare i passi più significativi:
“Ora, che cosa sta accadendo durante l’epidemia di Covid-19? Il divieto, per mantenere il distanziamento sociale, di celebrare riti funebri e di recarsi al cimitero ha avuto un impatto fortissimo sui cittadini italiani. Unito all’impossibilità di accompagnare i propri cari alla fine della vita, ha determinato sovente dei lutti pieni di rabbia e disperazione, che ci inducono a ripensare il panorama funebre contemporaneo alla luce del Covid -19.”
Lo abbiamo sottolineato altre volte, ma conviene ripeterlo, l’immagine dei camion militari che trasferivano i cadaveri destinati alla cremazione da Bergamo ai vari crematori disponibili e le polemiche sviluppatesi quando gli impianti di cremazione hanno formulato le naturali richieste di pagamento fanno parte di questi “lutti pieni di rabbia e disperazione”. L’epidemia ha, come dire, esaltato l’aspetto dello “smaltimento” dei cadaveri, in qualche modo, a mo’ di rifiuto, speciale sì, ma sempre rifiuto per di più “infetto”.
La semplificazione e la velocizzazione delle procedure imposte ha sacrificato la naturale attenzione al commiato ed all’espressione di quelle manifestazioni affettive propedeutiche ad ogni corretta elaborazione del lutto.
Per questo, lo ripeteremo sempre fino alla noia, le scelte pubbliche adottate nel trattamento dei defunti non rappresentano la soluzione ma sono una sconfitta dello stato che poteva, ne siamo convinti, essere evitata.
Ma andiamo avanti nelle riflessioni utilizzando ancora le sottolineature della dott.sa Marina Sozzi.
“La prima osservazione da fare riguarda la sottovalutazione dell’importanza del rito funebre che è stata fatta. Occorre ricomprendere l’insostituibile funzione del rito. Il rito lenisce la ferita che la morte infligge nel corpo sociale, ribadendo che la vita può continuare nonostante la morte; il rito mette ordine, laddove la morte minaccia la vita in quanto irruzione in essa del caos; il rito ci ricorda che la morte di un membro della società è un evento sociale, non un avvenimento individuale o familiare che si vive in solitudine; il rito assegna una collocazione al defunto (qualunque sia questa collocazione, tra gli antenati, in un altro mondo, o nel ricordo di chi l’ha conosciuto); il rito ci permette di smaltire il corpo morto, ma senza venir meno alla consapevolezza che quel corpo è stato persona, ancora presente nella mente dei suoi cari. Il rito, infine, dà origine al periodo del lutto, legittimandolo.
E accanto al rito occorrono luoghi funebri accoglienti, rassicuranti, pieni di bellezza (un tema, anche questo, che abbiamo trattato e che tratteremo in futuro)
È quindi più chiaro perché la mancanza di un rito funebre e l’impossibilità di recarsi al cimitero abbia sconvolto il rapporto con la morte dei nostri connazionali. Forse l’impatto del dolore senza nome che è entrato nelle famiglie in lutto è stato sottovalutato dalle autorità chiamate a stabilire le regole in questo terribile momento di pandemia. Forse si sarebbe potuto cercare di trovare un modo per non cancellare i riti funebri. ….”
La dott.sa Sozzi prosegue in questa riflessione ipotizzando e suggerendo anche linee di aggiornamento delle modalità di svolgimento dei riti funebri laici o religiosi che siano, ponendo anche il problema di “cosa si può fare per lenire il dolore di coloro che non hanno potuto celebrare riti funebri” a causa del pandemia e richiamando alla memoria di ognuno di noi atti salienti di ritualità funebre collettiva come la “giornata del milite ignoto” con la declarazione dei soldati morti o la celebrazione, a Gerusalemme, della memoria dei bambini morti nella Shoah, anche qui con la forza commemorativa del pronunciare i nomi dei bambini.
Mi sia permesso un ringraziamento sentito a Marina per le riflessioni che ci ha offerto e che ogni lettore potrà approfondire con la lettura della rubrica da Lei curata www.sipuodiremorte.it.
Certo il tema del rito funebre e, più in generale, del commiato deve diventare a pieno titolo un patrimonio degli operatori funebri.
Qualcosa si sta muovendo e mi è gradito salutare con piacere il ripetersi di una iniziativa importante promossa da un caro amico, Ivan Trevisin, operatore funebre di Treviso: la “2a edizione del concorso internazionale di composizione ed esecuzione di Musica Funebre Laica e Religiosa: DUE SOTTO”
L’operatore funebre del 2000, cioè, non può limitarsi ad essere l’organizzatore del funerale tradizionalmente inteso, deve diventare sempre più il sostegno della famiglia in lutto, colui che aiuta con attenzione e discrezione il cosiddetto dolente non solo nelle incombenze pratiche post-mortem ma anche colui che aiuta l’espressione del “saluto” da parte delle famiglie che si accommiatano dal defunto. Allora studio, ricerca e documentazione debbono diventare impegno quotidiano degli operatori funebre che credono nel loro lavoro e nella loro “mission” instaurando una sorta di consuetudine con i professionisti e gli esperti che lo aiuteranno in questa “mission” e le organizzazioni del settore dovranno dedicare a questi temi maggiore impegno ed essere lo stimolo per i loro aderenti.
CARONTE