Dante Alighieri, 700 anni dopo, e la funeraria
700 anni fa, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, moriva Dante Alighieri. Padre della lingua italiana, poeta, enciclopedista ante litteram, critico d’arte, profeta e visionario: una figura immensa, che insieme a San Francesco e a Leonardo Da Vinci costituisce la triade a cui gli italiani devono la loro ancestralità letteraria, spirituale, tecnico-scientifica. Il settecentenario dantesco, un evento che la filologia patriottica – a partire dall’Accademia della Crusca – prepara da decenni, si appresta a tenere banco nel dibattito culturale italiano e, perché no, a stimolare qualche riflessione all’ambiente della funeraria, con particolare riferimento alla somma opera del poeta: la Divina Commedia.
L’opera di Dante, che fu determinante nella prima metà del ‘900 per alfabetizzare l’Italia, risuona da sempre intramontabile grazie alla sarabanda di immagini ed episodi narrati con vivida partecipazione che proiettano il lettore nei luoghi e nei discorsi della poesia, aprendo la sua mente allo spettacolo dell’allegoria.
Questo è la Divina Commedia: l’incontro di un’anima con se stessa per il tramite di un viaggio fatto di cadute, dubbi, timori, speranze, senza mai perdere di vista la missione di uno spirito autenticamente cristiano.
Dante, giova ricordarlo, fu anche un appassionato di politica: priore di Firenze per un certo tempo, finì nei guai per una trama ordita da una magistratura compiacente che per eliminarlo politicamente lo condannò all’esilio onde evitare di essere messo al rogo. In una città, tra l’altro, ignara del fatto che qualche lustro dopo avrebbe sommato alla sciagura della brutta politica nientedimeno che una pandemia (la peste). Quanta attualità!
Potrebbe accadere allora che nel viaggio ultraterreno (che solo Enea e San Paolo, oltre al mitico Orfeo, hanno intrapreso) gli incontri e le riflessioni del poeta diventino i nostri e ci illuminino. Nel clima da giudizio universale che precorre il sentiero del regno dei morti non si può infatti rinunciare al proprio personale confronto con la dimensione della morte, realtà fisica che l’evo moderno tende a dimenticare, rimuovere, disincarnare, ma che per le strade dell’arte ci si affaccia col furore ossimorico di uno schiaffo che scocca come una carezza.
“Per me si va nella città dolente” scrive Dante, usando questa parola divenuta tecnica nel linguaggio della funeraria, sublimando concetti tanto antropologici quanto identitari che fanno della morte una materia viva e feconda, da trattare con rispetto e confidenza e da assumere come monito personale per trasformare il libero arbitrio in una scelta morale che non rifugge le responsabilità della vita.
E proprio qui sta il registro utile alla funeraria: chi opera nel settore non può mantenere alta la performance senza un buon equilibrio psicologico che resiste alle sollecitazioni da stress. E questo equilibrio non può essere solo il portato dell’esperienza, ma viene alimentato dalla consapevolezza e dall’accettazione a livello profondo della dimensione ineluttabile del fine vita.
Riscoprire la Divina Commedia, opera popolare per eccellenza (non appannaggio esclusivo di raffinati intellettuali come certa critica o pessimi insegnanti vorrebbero far credere), che svela in poesia e avventura il significato della morte, della colpa e della redenzione può contribuire all’edificazione di operatori strutturati e solidi, non induriti dalla professione e perfettamente in grado di essere genuinamente empatici coi dolenti.
Piero Chiappano